la riflessione inerente alle persone adulte disabili, si è sviluppata negli ultimi anni, perlomeno qui al sud Italia. Precedentemente l’interesse era focalizzato solo all’età evolutiva, ossia fino ai 14 anni, si pensava, erroneamente e superficialmente, che dopo questa età la riabilitazione , io la chiamo l’abilitazione poiché se un bambino nasce con un handicap esempio lesione cerebrale in cui è compromesso il deambulare non posso dire riabilitazione poiché non ha mai camminato e non ha mai avuto l’uso delle gambe… pertanto devo abilitare gli arti… con il sopraggiungere quindi dell’età giovanile gli interventi ri-abilitativi venivano interrotti.
Tutto ciò comportava un abbandonare totalmente sulle spalle della famiglia il ragazzo/a disabile dimenticandosi anche della stessa esistenza, causando di fatto un isolamento da ogni forma di socializzazione della persona disabile, per i più gravi quasi sempre si spalancavano le porte dell’istituto.Le varie scienze psicopedagogiche hanno fatto sì, anche su suggerimento delle famiglie che mobilitavano le istituzioni, i legislatori, concentrarono i loro sforzi nel cercare, di promuovere soluzioni di sostegno anche oltre l’età evolutiva.Negli anni 60/70 queste persone venivano indicate come subnormali, minorati psichici, questo era il termine con cui venivano certificati e denominati e l’età adulta era caratterizzata dalle dimensione assistenziale.
Mentre gli altri disabili fisici e sensoriali mentalmente integri pur fra mille difficoltà cercavano di far valere i loro diritti di cittadini, grazie anche alle loro forti rappresentanti le associazioni di indirizzo, per i portatori di disabilità psichica mentale, incapaci di difendersi e far valere i loro diritti, di manifestare i loro problemi e sapersi organizzare …..rimanevano chiusi in casa quando la famiglia riusciva a gestirli oppure negli istituti circondati da pietismo assistenzialismo invece che avere riconosciuti i propri diritti di cittadinanza.
Dopo gli anni 70 grazie alla nascita delle associazione di genitori, che finalmente capiscono che i loro figli in qualità di persona hanno pari diritti e para dignità di cittadino, crebbe l’interesse,l’ attenzione, l’elaborazione e la ricerca di proposte innovative ha fatto sì che gli istituti per subnormali fossero chiusi dando così dignità a persone con abilità diverse.Certo non si può dire di aver raggiunto il top delle risposte per tutti i tipi di disabilità però si è cercato e per quanto mi riguarda, si cerca ancora di favorire la riflessione su cosa tenere e cosa buttare e/o migliorare nel lungo percorso che ancora resta da fare, rifiutando le ricette preconfezionate presentate da presuntuosi speculatori .
L’accompagnamento al cammino di queste persone non può essere fatto unicamente sulla relazione spontanea e amicale, certamente questo è bello che ci sia, ma non basta per essere significativa deve necessariamente essere affiancato dalla relazione educativa che permette lo sviluppo armonico delle residue capacità e delle autonomie .La relazione educativa intenzionale punta al raggiungimento di uno scopo finalizzato e non casuale, rafforza la conferma dell’altro , il sostegno, l’apprezzamento costante, la fiducia nelle proprie capacità,la scoperta delle proprie potenzialità , potenzialità che spesso la persona disabile non sa di avere,comunicare quanto di meglio è in lui, accettarsi , cambiare l’immagine di se da negativa a positiva.
La relazione educativa rende capaci, attraverso un’autorevole guida, di avere un punto fisso di riferimento sicuro,affidabile, forte nella sua stabilità, fedele in un rapporto chiaro.Le famiglie chiedono una risposta ricca di umanità di riconoscimento dei diritti e che si occupi di loro anche dopo… attraverso un progetto di vita, al di là dei nomi, centro riabilitativo CST, Centro diurno…..Occorre quindi una progettualità globale comunitaria con una relazione educativa che di fatto impedisca deterioramenti , bensì attraverso percorsi personalizzati rinnovi migliori lo stato e gli interventi.
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